Spazioprever lezioni in rete - I.I.S. "A. Prever" Pinerolo
(pp. 377-378)
Ancora una poesia di guerra, scritta dopo essersi disteso in una dolina (un anfratto calcareo, simile ad una pozzanghera, ad un laghetto).
Siamo in piena estate, il 16 agosto. Dopo il pellegrinaggio di dolore nella guerra e nella morte, Ungaretti trova ristoro nell’acqua, simbolo – come abbiamo già visto – della placenta materna. In questo caso, è l’acqua del fiume Isonzo, su cui il fronte italiano e quello austriaco si sono attestati durante i combattimenti del 1916.
Apre la poesia il poeta, ritratto mentre guarda le nuvole passare in cielo, in atteggiamento sospeso, ma non passivo. La dolcezza del riposo gli ricorda l’ambiente triste di uno spettacolo circense, subito prima e subito dopo che gli attori sono entrati in scena, quando il divertimento è finito e gli spettatori sono costretti a tornare alla loro vita di tutti i giorni.
Come se la sua vita fosse una reliquia, Ungaretti si è sdraiato per lavarsi in una pozza d’acqua sul Carso. Lì, come nel ventre materno, ha riposato. L’Isonzo, con la sua corrente, lo ha massaggiato e levigato come se fosse un sasso (concezione che si ritroverà anche in Pirandello, Uno nessuno e centomila, 1928, con la figura del protagonista Vitangelo Moscarda che, ricoverato in ospedale psichiatrico, aspirerà a farsi sasso per evitare ogni tipo di dolore proveniente dal mondo e dalla vita).
Dopo essersi rialzato ed essere uscito dalla pozza, Ungaretti, come un beduino del deserto egiziano, si è sdraiato vicino ai suoi sporchi panni di guerra e ha goduto dei raggi del sole, in piena comunione con il creato e la Natura. All’interno del fiume Isonzo, il poeta ha capito di essere un filo dell’arazzo dell’Universo, una fibra docile che rispetta il suo piano figurativo senza chiedersi perché debba fare così. Egli ha anche compreso che il suo peggior male interiore è non sentirsi in armonia con il Tutto: sono solo le dolci mani dell’Isonzo, quando lo levigano come un sasso, a fargli provare, in mezzo al dolore dei combattimenti, la piena felicità.
Ungaretti, dopo aver sperimentato se stesso come fibra docile dell’immenso Universo, sentendosi in pace con esso, ricorda quali sono stati i fiumi che hanno caratterizzato le fasi della sua esistenza. C’è stato il Serchio, fiume di Lucca, da cui attinsero per centinaia di anni i suoi antenati di campagna; c’è stato il Nilo, fiume che bagna Alessandria d’Egitto, accanto al quale Ungaretti è cresciuto, fanciullo, bruciante di inconsapevolezza nelle sue pianure; c’è stata la Senna, fiume parigino torbido, nelle cui acque sporche e inquinate il giovane Ungaretti è riuscito a precisare se stesso e a conoscersi. Tutti questi fiumi sono racchiusi nelle acque dell’Isonzo. In ognuno di essi traspare la nostalgia del poeta, ora che è giunta la guerra e la vita è divenuta un fascio di tenebre.
Il paese di San Martino del Carso è stato completamente raso al suolo dai combattimenti fra gli eserciti italiano e austriaco.
Delle case che lo componevano sono rimasti in piedi singoli brandelli di mura carbonizzate. Per analogia, le poche mura della località vengono collegate da Ungaretti alle figure di coloro i quali gli scrivevano: tutti combattenti dei quali non è rimasto nemmeno un brandello, massacrati dalla guerra.
Per questo motivo, il cuore del poeta è divenuto un cimitero in cui non mancano le croci. Non è dunque San Martino del Carso il luogo più devastato dalla guerra, ma il cuore del poeta, che ha visto venir meno in pochissimo tempo tante figure di amici, spazzate via dall’assurdità della guerra.
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